Laura Orsolini è una donna vulcanica. La sua energia è stata travolgente e contagiosa dal nostro primo incontro al Salone di Torino. Oggi però è così emozionata che quasi non si direbbe che dietro di lei si nasconde l’irriverente e pettegola Frutta Candita, autrice del suo primo romanzo Io semino vento.
Raffaella dell’Anadima Bistrot ci accoglie con premura e il clima, complice l’aria rilassante e familiare del locale, si fa da subito intimo. Antonio Salviani scoperchia latte dalle tinte pastello, dispone i pennelli ed è subito all’opera: accompagna infatti la presentazione del libro con una trasformazione. O meglio, riporta in vita vecchi capi d’abbigliamento con la sua pittura. Laura fa la stessa cosa, ma con le parole: riporta in vita storie e le fissa per noi sulla carta, perché non vengano dimenticate. Perché non si perda un pezzo del nostro passato. Perché ci sia la possibilità per tutti, anche per le prossime generazioni, di conoscere un mondo che dista meno di un secolo da noi ma che sembra lontano anni luce.
Laura è qui oggi, in compagnia di Valentina Ciannamea e di Natascia Pane, per raccontarci la storia di Teresa, che ha racchiuso nelle pagine ancora calde di stampa (Luca Malini de La Memoria del Mondo Edizioni ha fatto l’impossibile perché il libro arrivasse in tempo) di L’alba si portò via la notte. Teresa, nel 1927, è una giovane donna di Gallarate che si è da subito rimboccata le maniche per far fronte a una situazione economica difficile e che, con coraggio e una buona dose di audace incoscienza, decide di partire alla volta di Mogadiscio, nella Somalia delle colonie italiane dagli anni ’20 al 1947.
Laura ha un profondo rispetto per le storie che racconta, e lo dimostra ancora una volta nella scelta, stilisticamente impegnativa e potenzialmente restrittiva dal punto di vista dei lettori, di far parlare Teresa esattamente come si esprimeva una giovane gallaratese nel 1927: in dialetto. E lo fa con accuratezza e meticolosità, affiancata da Franco e Mario Puricelli, che affinano ogni parola secondo la giusta inflessione locale. Abbiamo poi il piacere di avere con noi il dott. Antonio Giollo, “colpevole” di aver raccontato a Laura la sua storia, la storia di sua madre, l’audace Teresa. Le numerose immagini, generosamente concesse alla fine del romanzo, ritraggono una giovane donna dall’aria sicura, la nostra protagonista per l’appunto, e una coppia di fratellini in braghe corte e sandaletti in cui ci divertiamo a riconoscere il ben più adulto dott. Giollo.
E’ quasi un mese che aspetto di vedere come va avanti la storia di Teresa, da quando Laura mi ha messo in mano, con tutta l’emozione che un autore dovrebbe sempre avere, l’estratto cartaceo del libro. Una ventina di pagine leggere che ho voracemente divorato. Perché in quelle pagine c’è sì la storia di Teresa, ma c’è anche la storia di un luogo, di una generazione e di mondo con cui ho la fortuna, da brava nipote di nonna milanese, di essere cresciuta. Quelle parole, quei racconti, quel dialetto profumano di paese. Profumano della mia infanzia, di quel periodo in cui si ascoltano, incantati, i nonni che narrano vecchie storie. Una madelaine da leggere.
Natascia legge il brano in cui Teresa prepara la valigia per partire alla volta dell’Africa e io devo fare un sforzo per uscire da quella stanza, distogliere lo sguardo dalla valigia che si riempie e dai vestiti che si piegano e tornare al reale. Ma il libro si chiude e le nostre tre signore mi aiutano a ritornare al 2013 accelerando il ritmo dell’incontro, che decidono di chiudere nel modo più frizzante, con “un’intervista doppia” a Laura Orsolini vs Frutta Candita. Non posso regalarvi il libro, ma almeno guardatevi l’intervista qui.