Arrivo al Chiostro dei Glicini dell’Umanitaria a incontro già iniziato, perdendomi per cortili: la pioggia ha obbligato a spostare la conferenza “Di che cosa parliamo quando parliamo di cultura?” in una delle sale interne. Entro mentre Massimo Arcangeli (linguista, critico letterario e consulente della Dante Alighieri) sta parlando dell’esigenza di creare un approccio più materico e visivo nell’avvicinare i più giovani alla cultura. Cita un aneddoto che ha a che fare con i suoi studenti e la giardinetta, tra cinema e letteratura. Perdo subito l’imbarazzo del mio ingresso ritardatario e affannoso, immaginavo un dibattito un po’ ingessato. Non lo è. Ci si pone ancora il problema della separazione tra cultura “alta” (i relatori mi perdoneranno: una delle missioni della serata è combattere le virgolette aeree, sostituiamole piuttosto con grasse parentesi!) e cultura popolare. Certo, non è un problema attuale, Gramsci docet. Non si trovano soluzioni immediate, ma tutti sembrano convenire che non si tratta di rendere pop ciò che non lo è. Pensiamo alle schitarrate da oratorio nei canti liturgici, per esempio (l’ispirazione di Lorenzo Arruga, moderatore dell’incontro, viene dal libro “Musica maledetta. Il trionfo della non-musica” di Mario delli Ponti. Basta un suo accenno a scatenare le nostre risate assenzienti!), dove la presunzione del moderno non è che una volgarizzazione in cui si perde completamente il rapporto tra il sacro e la bellezza. Si tratta, forse, di favorire l’incontro con la diversità, sia la diversità percepita come geografica, culturale, sociologica o condizionata dalla mancanza di strumenti necessari a comprenderla. Per cominciare potremmo prender spunto dai francesi, suggerisce Massimo Arcangeli, che hanno quasi abbandonato la loro identité (autodefinita) per identification (etero definita). Mentre Gaia Varon (docente universitaria, musicologa e conduttrice radiofonica) ci porta su un sentiero pratico parlando della sua esperienza a Radio3. Ci affascina con il suo racconto sul teatro di ricerca di Eugenio Barba, dove tradizione indiana, europea e sudamericana si fondono in un approccio performativo e antropologico, prima ancora che intellettuale. Si parla di condivisione, di internet, della voglia di fare cultura. Mi pare curioso che ad augurarsi un incontro reale, prima che virtuale, siano le più giovani, le ragazze che hanno occupato la libreria Ex-Cuem dell’Università Statale, che con stile e trasparenza hanno portato il loro messaggio: abbattiamo le barriere tra produttori e consumatori della cultura. Speriamo che sia l’inizio di un discorso da approfondire…
Si è passati da Petrarca, Tasso, Leopardi, Manzoni, alla letteratura della migrazione e ai cantautori dei nostri tempi che si sono cibati di narrazioni ottocentesche e poesia ermetica. Là proprio su quel muro/ci sono i nostri nomi cantava Enzo Jannacci.
Non ultimo, Milton Fernandez ci ha messo in guardia da un pericolo di cui poco si parla, la signora censura. Con pochi e visionari frammenti, ci ha riferito della sua esperienza in Uruguay, del teatro come resistenza alla dittatura militare. Dove la catarsi può venire dal racconto di un contadino che ingannò la morte o da un ombrello rovesciato che dai tetti di una casa studentesca di Montevideo capta i segnali di una radio cubana.
Soddisfatta e sognante, torno a casa con un’impensabile scoperta: di questi tempi se vai correndo sotto la pioggia per le strade di Milano, che tu sia in centro o in periferia, senti l’odore dei gelsomini.
Lisa