Lo spazio dedicato alla Poesia urgente per Giulo Regeni al Festival Internazionale di Poesia di Milano, in collaborazione con Amnesty international Italia.
foto di Carolina
Le immagini del primo Festival Internazionale di Poesia di Milano raccontano una giornata ricca di emozioni, musica e parole.
foto di Carolina
Laura Orsolini è una donna vulcanica. La sua energia è stata travolgente e contagiosa dal nostro primo incontro al Salone di Torino. Oggi però è così emozionata che quasi non si direbbe che dietro di lei si nasconde l’irriverente e pettegola Frutta Candita, autrice del suo primo romanzo Io semino vento.
Raffaella dell’Anadima Bistrot ci accoglie con premura e il clima, complice l’aria rilassante e familiare del locale, si fa da subito intimo. Antonio Salviani scoperchia latte dalle tinte pastello, dispone i pennelli ed è subito all’opera: accompagna infatti la presentazione del libro con una trasformazione. O meglio, riporta in vita vecchi capi d’abbigliamento con la sua pittura. Laura fa la stessa cosa, ma con le parole: riporta in vita storie e le fissa per noi sulla carta, perché non vengano dimenticate. Perché non si perda un pezzo del nostro passato. Perché ci sia la possibilità per tutti, anche per le prossime generazioni, di conoscere un mondo che dista meno di un secolo da noi ma che sembra lontano anni luce.
Laura è qui oggi, in compagnia di Valentina Ciannamea e di Natascia Pane, per raccontarci la storia di Teresa, che ha racchiuso nelle pagine ancora calde di stampa (Luca Malini de La Memoria del Mondo Edizioni ha fatto l’impossibile perché il libro arrivasse in tempo) di L’alba si portò via la notte. Teresa, nel 1927, è una giovane donna di Gallarate che si è da subito rimboccata le maniche per far fronte a una situazione economica difficile e che, con coraggio e una buona dose di audace incoscienza, decide di partire alla volta di Mogadiscio, nella Somalia delle colonie italiane dagli anni ’20 al 1947.
Laura ha un profondo rispetto per le storie che racconta, e lo dimostra ancora una volta nella scelta, stilisticamente impegnativa e potenzialmente restrittiva dal punto di vista dei lettori, di far parlare Teresa esattamente come si esprimeva una giovane gallaratese nel 1927: in dialetto. E lo fa con accuratezza e meticolosità, affiancata da Franco e Mario Puricelli, che affinano ogni parola secondo la giusta inflessione locale. Abbiamo poi il piacere di avere con noi il dott. Antonio Giollo, “colpevole” di aver raccontato a Laura la sua storia, la storia di sua madre, l’audace Teresa. Le numerose immagini, generosamente concesse alla fine del romanzo, ritraggono una giovane donna dall’aria sicura, la nostra protagonista per l’appunto, e una coppia di fratellini in braghe corte e sandaletti in cui ci divertiamo a riconoscere il ben più adulto dott. Giollo.
E’ quasi un mese che aspetto di vedere come va avanti la storia di Teresa, da quando Laura mi ha messo in mano, con tutta l’emozione che un autore dovrebbe sempre avere, l’estratto cartaceo del libro. Una ventina di pagine leggere che ho voracemente divorato. Perché in quelle pagine c’è sì la storia di Teresa, ma c’è anche la storia di un luogo, di una generazione e di mondo con cui ho la fortuna, da brava nipote di nonna milanese, di essere cresciuta. Quelle parole, quei racconti, quel dialetto profumano di paese. Profumano della mia infanzia, di quel periodo in cui si ascoltano, incantati, i nonni che narrano vecchie storie. Una madelaine da leggere.
Natascia legge il brano in cui Teresa prepara la valigia per partire alla volta dell’Africa e io devo fare un sforzo per uscire da quella stanza, distogliere lo sguardo dalla valigia che si riempie e dai vestiti che si piegano e tornare al reale. Ma il libro si chiude e le nostre tre signore mi aiutano a ritornare al 2013 accelerando il ritmo dell’incontro, che decidono di chiudere nel modo più frizzante, con “un’intervista doppia” a Laura Orsolini vs Frutta Candita. Non posso regalarvi il libro, ma almeno guardatevi l’intervista qui.
Un giro in tram, recupero la macchina e volo al Goganga. Qui mi aspettano un autore, un attore, una band vestita di tutto punto e… una serranda abbassata. Già, abbassata. Perché le serate al Goganga partono tardi e sono un tutt’uno con la notte. E noi del Festival, che amiamo insinuarci in ogni anfratto urbano, decidiamo di assecondare il ritmo dei padroni di casa. Tiriamo in lungo, facendo un ottimo uso del tempo che ci stiamo regalando per chiacchierare, conoscerci, raccontarci e viverci un po’ insieme. Un momento di calma prezioso (sarà l’occhio del ciclone?) che nel tourbillon festivaliero bisogna saper cogliere al volo.
Gli amici arrivano, il pubblico più “letterario” fa timidamente capolino dalle porte a lui poco note e qualche habitué del locale ci guarda con aria altrettanto sospetta: cosa sta per succedere questa sera sul palco del Goganga?
Una luce ritaglia uno spazio tra due microfoni e siamo pronti a iniziare il nostro viaggio: Milano-Liverpool A/R!
Davide Verazzani, con sintetico trasporto, ci presenta il suo testo teatrale, La versione di Neil (Una vita con i Beatles), che debutterà il 4 ottobre al Teatro di Ringhiera di Milano.
Neil Aspinall è stato per 10 anni prima road manager, poi assistente personale dei Beatles. Sempre al loro fianco, in studio e durante i tour, a condividere tutto con i Fab Four. Neil ha davvero visto cose che noi umani possiamo solo immaginare. E le racconta a noi questa sera, in un reading incentrato sulla particolarissima registrazione del brano “A day in the life”.
L’autore cede la parola a Dario Sansalone, che è ora padrone della scena. Ha avuto in mano il copione solo il giorno prima, eppure sembra non abbia mai letto altro in vita sua! Neil ci porta per mano a Abbey Road e le sue parole danno vita a un surreale tableau vivant di costumi, dissonanze, mormorii, accordi e follia. La genialità Fab Four. E poco a poco la vediamo lì davanti a noi, la copertina di Sgt. Pepper, capolavoro corale che si materializza nei nostri occhi, quasi un’allucinazione collettiva.
Neil ha finito il suo racconto per questa sera, e io mi tatuo mentalmente: 4 ottobre, Teatro di Ringhiera. Devo sentire anche il resto!
E poi è un attimo: sul palco si materializzano quattro ragazzi vestiti di tutto punto che imbracciano i loro strumenti. Dominic Turner saluta il pubblico e il ritmo dei Beat Barons accende il locale. La prima canzone consolida il clima, ma dal secondo pezzo in poi il locale si riempie di ballerini che dondolano i fianchi e si muovono a tempo di beat.
Siamo ospiti della serata fino a mezzanotte, dopo di noi la solita musica tornerà a riempire le pareti del locale. Ma i ballerini sono con noi, negli anni Sessanta, e non ne vogliono sapere di tornare indietro. E allora sforiamo l’orario, con la complicità dei gestori, quanto mai disponibili, e ci concediamo ancora qualche pezzo. E pure qualche bis. Balliamo, teniamo il tempo con le mani e con le gambe. Di tornare da Liverpool non abbiamo molta voglia. Ma questo è pur sempre il Festival della Letteratura di Milano e allora tornaimo, perché ancora per due giorni Milano sarà un posto migliore in cui stare.
Il bello di questo Festival, tra le mille altre cose, è la capacità di trasportarti da un universo all’altro senza rendersene conto. C’è di tutto, ce n’è davvero per tutti i gusti: programma alla mano, basta solo avere il tempo di fare un buon piano di battaglia, con la consapevolezza purtroppo che non si potrà vedere tutto. E il mio venerdì ne è stato un esempio quanto mai calzante.
Ore 18.30: mi presento al Vinodromo Bistrot, dove trovo Angela Greco, poetessa tarantina che qui presenta A sensi congiunti, e Antonella Taravella, che presenta le poesie di Aderenza, accompagnate da Costantino Piazza, moderatore dell’incontro. So già che non mi potrò fermare a lungo, perciò approfitto del poco tempo che ho a disposizione per conoscere i nostri ospiti.
Due donne solari, desiderose di confrontarsi con il mondo, pronte a farlo con i loro versi. Si parla di noi, si parla di cultura, si parla di quel che facciamo e di quel che vorremmo fare, di come manifestazioni come questa pare trovino voce solo grazie al contributo volontario e di come, fortunatamente, ci sia un riscontro di pubblico cittadino affezionato (scopro che tra di noi c’è un’affezionata degli appuntamenti de Il Pubblico Narratore). I minuti passano veloci e io ho un tram che non mi aspetta. Dopo una breve introduzione sul Festival (è sempre molto bello trovare sorrisi solidalmente increduli quando raccontiamo il “miracolo” di questa manifestazione) a malincuore saluto i protagonisti e corro a prendere il 24, direzione Duomo.
Corro in via Mazzini, ignoro il traffico commerciale di via Torino ma non posso esimermi da un’occhiata a quella meraviglia che è San Satiro (ahimè, chiusa) e mi infilo nel dedalo di vie che racchiudono il cortile del Dida Café. Qui c’è già Massimo Tallone ad aspettarmi in compagnia di Raffaele Zagaria.
Le referenze di Massimo, in caso i suoi libri non bastassero, sono delle migliori: la nostra organizzatrice Cristiana Zamparo ne è entusiasta e mi basta parlargli un minuto per capire il perché. Il clima è da subito molto disteso, si passa dalle chiacchiere informali alla presentazione vera e propria senza nemmeno rendersene conto.
Massimo in questi giorni sta presentando Il diavolo ai Giardini Cavour edito da E/O, ma alle spalle (letteralmente e praticamente) ha una sfilza di titoli, la maggior parte dalla ormai inconfondibile copertina gialla di Frilli Editori, che fanno quasi pensare a un irrisolto problema di grafomania. E invece no. A differenza del Cardo, suo affezionato protagonista “cialtrone, sporco e porco, sempre sbronzo, ma in fin dei conti lucido quanto basta”, Massimo Tallone scrive con rigore quotidiano (retaggio dell’educazione calvinista paterna?) con il solo intento, dal 1984 se non erro, di scrivere sempre un romanzo migliore del precedente. E’ un autore estremamente consapevole del suo pubblico, o meglio, dei suoi pubblici, e proprio per questo scrive testi in cui i livelli di lettura, partendo da una superficie apparentemente immediata ed elementare, si accumulano fino a richiedere un lavoro di interpretazione non indifferente da parte del lettore. E con consapevolezza, distribuisce sapientemente la sua produzione a seconda delle case editrici per cui scrive, dosando sottilmente comicità e umorismo a seconda delle necessità.
Abile con la parola in tutte le sue forme, sia essa scritta o parlata, Massimo ricerca parole precise per i suoi romanzi: le sue “foglie di acero color brodo” temo mi rimarranno impresse per molto, così come il “sole euclideo” mi sembrerà ancora più bruciante del solito. La sua cura nella ricerca è sì farina del suo sacco, ma non solo: da lettore feroce, si è cibato dei grandi classici di Simenon, ama il lato meno marinaresco di Conrad e da vero intenditore suggerisce capolavori di comicità classica come Gargantua e Pantagruel di Rabelais. Nel suo percorso di costruzione a ritroso, ci confida come la famigerata “‘ispirazione” sia per lui è germinale, lo spunto di partenza che va nutrito, curato, seguito e cresciuto fino a che non prenderà la forma compiuta di romanzo.
L’incontro doveva durare il tempo di un aperitivo: i bicchieri sono vuoti da un po’, ma non vorrei proprio andarmene. Sono già in ritardo per il prossimo apputamento. Una domanda ancora, una stratta di mano, uno sguardo fiducioso ai libri che a breve leggerò e il traffico del centro mi fagocita di nuovo. Altro giro, altra corsa. Mi aspetta una serata Beat. (to be/at continued…)
La serata questa volta è iniziata sotto i migliori auspici: la splendida terrazza del Caffé Click, un angolo di tranquillità invidiabile accanto allo Spazio Forma, vantava per soffitto uno di quei cieli azzurri che si accompagnano a un’aria leggera. Roba rara, a Milano.
Giusto il tempo che gli impavidi Andrea, Loris e Paolo montassero gli strumenti degli Ipnodelica e poi abbiamo iniziato la nostra serata.
O, per meglio dire, il nostro viaggio. Un tour di tre ore partito da Milano, dove Sergio Scorzillo ha prestato una seducente voce alle parole di Lady Noir, libro (indovinate voi il genere?) della giovane milanese Isabella Pesarini, edito da Arduino Sacco Editore. Un romanzo nero che dà voce alle forme dell’amore nelle sue possibili declinazioni e distorsioni, perfettamente sottolineate dalla musica sperimentale del gruppo padovano.
Le note scorrono veloci, anche le parole di Sergio, e in un attimo è il turno della prima della scuderia Frilli Editori, che ci catapultano a Genova. La Genova raccontata da Maria Teresa Valle ne Il conto da pagare è una Genova a doppio binario temporale: si parte da un omicidio ai giorni nostri per tornare a indagare su uno dei periodi più oscuri della nostra storia recente, quello del terrorismo delle brigate degli anni Settanta, in un avanti e indietro temporale che incolla il lettore alle pagine. Un’indagine che Maria Teresa ha tenacemente voluto, forte della consapevolezza che si tratti di un decennio irrisolto in cui le vittime, nella maggior parte dei casi, non sanno tutt’ora dare un volto ai loro carnefici, che girano impuniti tra di noi. Il tutto raccontato dall’autrice con pacata fermezza, così come ferma è la sua protagonista Maria Viani, nerboruta (cito la puntuale definizione di Patrizia Debicke, che ci ha accompagnato per tutta la serata) indagatrice dilettante che dal 2008 esce dalla penna di Maria Teresa per raccontarsi sulle gialle pagine dei Frilli.
Da Genova è il momento di risalire verso il Piemonte per fermarci a Torino in compagnia di tre autori del nostro ormai affezionato editore Frilli, in una chiacchierata informale che tratteggia tre profili molto diversi.
Partiamo da Rocco Ballacchino, unico torinese d.o.c. a dispetto del nome, che con Trappola a Porta Nuova svela le complicate conseguenze di un mancato appuntamento nato su un social network. Dostoevskiana memoria di delitti e castighi per il suo protagonista, Daniele Bagli, che brancola in una torrida Torino alla ricerca del suo sconosciuto nemico.
Fabio Beccacini (non chiamatelo MAI piemontese: che è ligure, lui!) introduce invece la sua trilogia del commissario Paludi e ci spiega come la scrittura gli sia servita per conoscere Torino e ambientarsi in una città che viveva da “straniero”. Nonostante l’affetto per il suo protagonista, scrive storie corali, gli piacciono i punti di vista che si moltiplicano, le narrazioni collettive. Mentre parla decido che nell’attesa che esca il suo prossimo libro (Ultimi fuochi per Paludi è ormai del 2011) recupererò le origini di Paludi con i precedenti due libri.
Fabrizio Borgio, irrequieto astigiano che ama definirsi il “cugino di campagna”, mette in mostra la sua passione per il cinema da subito, sfoggiando una mise tarantiniana che gli fa guadagnare il mio personale titolo di Mister Noir. Ma subito Fabrizio precisa che il suo non è precisamente uno stile noir: le sue influenze sono orrorifiche e sovrannaturali, in un pastiche di stili che rende i suoi testi, radicati nella sua terra, di cui vuole raccontare folklori e orrori, assolutamente contemporanei.
Non abbiamo ancora fatto in tempo ad ambientarci a Torino che subito qualche sadica goccia di pioggia ci riporta al reale, a Milano, alla nostra terrazza all’aperto, al vento che minaccia gli ombrelloni e al cielo che è tornato (se mai ne avessimo avuto nostalgia) di un ormai familiare grigio. I torines… cioè, i piemont… ok: gli ultimi tre autori ci salutano, il pubblico che ci ha seguito per tre ore si accomiata e gli Ipnodelica propongono un ultimo pezzo. Ma la pioggia stasera non ha voglia di muoversi dal cielo, le porte della terrazza si aprono e dallo Spazio Forma arrivano altre persone, catturate dalla musica. E mentre i ragazzi di padova decidono di regalarci ancora qualche pezzo del loro repertorio, ci accorgiamo che anche dalle finestre dei palazzi che ci circondano fanno capolino degli spettatori che con discrezione hanno seguito la serata dai loro “palchi privati”. E ci godiamo così le ultime note ipnodeliche di questo giovedì di Festival della Letteratura di Milano con vista dalle terrazze.